di Marika Tanzi //
«I have a huge curiosity. And that’s what separates me from other photographers. Because they’re looking at something but they never discuss the nature of what they are looking at. So if I see a woman crying, I want to know why she’s crying, what’s the nature of her grief» -Duane Michals
«Ho una enorme curiosità. E questo è ciò che mi separa dagli altri fotografi. Perché loro osservano qualcosa ma non trattano mai la natura di quello che stanno osservando. Così se io guardo una donna che piange, voglio sapere perché sta piangendo, quale sia la natura del suo dolore».
Curiosità: è questo l’elemento cardine dell’attività fotografica di Duane Michals, autore di opere di grande spessore concettuale e pioniere di un genere, quello della fotografia narrativa, che lo ha fatto divenire tanto celebre da meritarsi l’appellativo di storyteller. Un artista eclettico, che ha reso le domande senza risposta il suo centro di gravità in continuo movimento, un’epopea umana dalla surreale percezione visiva.
Questo incredibile personaggio non si limita a fotografare e cristallizzare un momento spazio-temporale; piuttosto rende quello spazio-tempo un’alienazione suggestiva, una frammentazione a più riprese della storia (molto spesso solo immaginata) che sta avvenendo dinanzi a lui, come accade in The human condition del 1970, uno dei suoi lavori più celebri.
Qui un uomo dallo sguardo trasognato, in mezzo ad una folla di persone raccolte intorno a quello che pare essere il binario di un treno, guarda dritto verso l’obiettivo e - man mano che le sequenze si susseguono - comincia a prendere la forma di una galassia, fino a trasformarsi (nel frame finale) in un mondo a sé stante, con le sue stelle e le sue esplosioni di luce e gas.
Un esercizio mentale che si estende ad altri suoi lavori, come Paradise Regained, in cui un uomo e una donna posano in un ufficio - lui seduto e lei in piedi dietro di lui - svestendosi dei propri abiti una sequenza dopo l’altra e riappropriandosi, un’immagine alla volta, dei loro corpi primordiali, come degli Adamo ed Eva ancestrali immersi in un Eden fittizio, ben lontano dalla serialità rovinosa di una civiltà industrializzata.
Tuttavia, è in lavori quali A letter from my father che Michals mostra la sua grande capacità di narratore, unendo alla fotografia la scrittura, che sempre gli sarà cara e - come in questo caso - gli permette di intensificare quell'apparato emotivo che l’occhio umano riesce a cogliere solo parzialmente.
In quest’opera il fotografo prova ad immaginare quello che suo padre avrebbe potuto scrivere in una lettera a lui indirizzata e mai arrivata; quale segreto inconfessabile gli avrebbe rivelato sotto voce e quali parole avrebbero permeato la carta. Le stesse che il suo udito mai aveva sentito pronunciare da quelle labbra sempre chiuse. Il padre però morì, e con lui il posto oscuro dove Michals credeva di poter finalmente trovare il suo amore.
Ed ecco che tutto sembra combaciare alla perfezione, con la fotografia che fa da cornice ad una emozione intima, delicata, quasi un sussurro materno nell'aria silenziosa. Un ragazzo dallo sguardo sconfitto si pone in primo piano di profilo, mentre il padre - con occhio severo - lo trapassa senza quasi vederlo; sua madre guarda altrove, per metà nascosta dalla testa pensante del figlio.
Si realizza così un connubio armonico tra mente e visione, che struttura e solidifica quella che si rivela essere la grande opera visionaria di un genio della fotografia.
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