di Carla Di Renzo //
Prendendo via del Corso da piazza Venezia, in un piccolo spazio pubblico vediamo ergersi la facciata barocca della chiesa di San Marcello, le cui origini risalgono al IV-V secolo.
È legata al nome di papa Marcello I che, secondo il Liber Pontificalis e la Passio Marcelli, fu perseguitato dall'imperatore Massenzio e condannato a compiere i lavori più umili nelle stalle del catabulum (la sede delle Poste Centrali dello stato). Innumerevoli sono state le ricostruzioni durante i secoli: ad esempio nel XII secolo il suo orientamento si opponeva a quello attuale, in quanto l’ingresso era volto verso piazza dei Santi Apostoli con un atrio a quadriportico, mentre l’abside si affacciava sulla via Lata (l’attuale via del Corso). Nel 1368 s’insediarono poi i Servi di Maria, che ancor oggi vi officiano.
Correvano gli anni 1519-1520 quando fu travolta da un incendio che – in una sola notte – distrusse la chiesa. Al popolo romano, dell’antico tempio sacro, rimanevano solo macerie. Eppure, tra le mura cinerine ancora fumanti, apparve il miracolo: il crocifisso in legno, che imponente dominava l’altare, sembrava ancora resistere alle fiamme ardenti di una piccola lampada ad olio situata ai suoi piedi. I fedeli, colti dallo stupore, iniziarono a riunirsi ogni venerdì per pregare assieme, fino al costituirsi della Compagnia del SS. Crocefisso. Jacopo Sansovino – su committenza di papa Leone X – fece risorgere le spoglia dell’edificio, realizzando una struttura a navata unica con cinque cappelle per lato.
Pochi anni dopo il funesto incendio, la città cadde vittima della Grande Peste e ciò condusse il popolo romano a trovar conforto nella dimora del Signore. Fu proprio il miracoloso Crocefisso di San Marcello, assieme alle preghiere concitate dei cittadini, a divenire un barlume di speranza nella battaglia contro Thanatos (dal greco Θάνατος: personificazione maschile della morte). Il sentimento popolare vinse anche il divieto delle autorità civili che cercavano di porre rimedio al rapido contagio, vincolando dunque ogni forma di assembramento. Il crocefisso ligneo fu portato in processione per le vie di Roma verso la basilica di San Pietro e così – per ben sedici giorni – esso viaggiò lungo il cammino sacro.
Tra le grida di soffocata paura e amor divino, la peste sembrava chetarsi e alla conclusione del pellegrinaggio si era ritirata dal fronte: Roma, ancora una volta, era salva. La processione perdurò nel corso dei secoli sino al sorgere dei primi decenni del Novecento, per poi cadere nell’oblio di desuete e feticiste tradizioni rituali.
Entrando nella basilica, lo sguardo si posa sulle imponenti mura barocche ove spiccano il marmo, gli affreschi, i capolavori artistici quali il monumento funebre del cardinale Giovanni Michiel (ucciso nel 1503 dai Borgia), ad opera del Sansovino, la cappella Frangipane con i dipinti di Taddeo e Federico Zuccari, ed infine i busti di Alessandro Algardi. Tra misticismo e leggenda – ancora oggi – possiamo lasciarci cullare da una litania flebile che rievoca preghiere e storie di un’epoca d’oro che non è poi così lontana da noi.
P.S.: Lasciandoci travolgere dalla tendenza a cercare spasmodicamente nel passato chiavi di lettura per il presente, potremmo azzardare un labile paragone: piegati da un’emergenza sanitaria di primo ordine che miete vittime e stravolge la nostra quotidianità, non siamo poi così distanti dalle strazianti suppliche in nome di Dio per porre fine all’epidemia che coinvolge la nostra penisola (e non solo!). Dunque, possiamo appellarci al miracolo del crocefisso di San Marcello anche noi?
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