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Giorgio De Chirico: così parlò l’enigma nel suo “eterno ritorno”

Aggiornamento: 14 feb 2021

di Carla Di Renzo //


Attraverso «scrittura di sogni» e «per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e di facciate, di grandi linee dritte; di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei», il pictor optimus Giorgio De Chirico «arriva ad esprimere quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità, di stasi, che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo nella nostra anima quasi addormentata» [1].

Ardengo Soffici consacra così la produzione creativa del giovane pittore che, nel fuoco divampato nella città «crogiolo dell’arte mondiale», irrompe sulla scena e si fa portavoce di una visione artistica proiettata nell’inesplorato e nel mistero della fine di una bella giornata in una piazza solitaria, luogo permeato da un senso d’irreparabile e quotidiana malinconia. Il percorso dechirichiano è una ricerca in costante: il pictor classicus, navigando le rotte della modernità con fiera e testarda libertà, diviene inconsapevole precursore delle tendenze avanguardistiche future.


Dopo aver abbandonato l’Accademia monacense, il “greculo” De Chirico approda in Italia, dapprima a Milano, in seguito a Firenze. È proprio la città toscana a diventare lo scenario ove si consuma l’epifania artistica che – sotto il segno della filosofia di Nietzsche, di Schopenhauer e di un fervido ambiente intellettuale – conduce ad una rivoluzione pittorica: la Metafisica.

Evitando le ricerche formaliste e astrattive, così come le forzature tonali espressioniste, De Chirico elabora con originalità un nuovo modo di dipingere. Dalle pennellate pastose del periodo simbolista sotto l’influsso di Arnold Böcklin giunge a trasformare la realtà ancora fenomenica in una forma archetipica: il protagonista è l’inattingibile, sospeso in una dimensione onirica atemporale che s’identifica nell’enigma-stato d’animo (Stimmung, dal tedesco “stato d’animo”, è la parola che De Chirico desume dalla filosofia nietzschiana e che definisce la sua intuizione estetica). Al soggetto assente o insignificante dei cubisti, l’artista oppone il non-senso immerso nello “sbadigliare” di architetture prospettiche incongruenti, di cieli non più vermicolanti e cangianti di riflessi ma fatti di monolitici smalti.


Siamo nel 1910, data che segna l’inizio di un nuovo racconto la cui narrazione è affidata al suo primo dipinto rivelatore, L’enigma di un pomeriggio d’autunno. L’importanza del termine “enigma” è rivelata, oltre che dai suoi scritti, anche dall’espressione che corre sul bordo dell’autoritratto giovanile, «Et quid amabo nisi quod aenigma est?» («Che cosa amerò se non l’enigma?»), e confermata nell’opera tarda Il pensatore del 1973, dove propone una figura indecifrabile, postmoderna e nichilista, la quale tiene in mano una tavoletta su cui è scritto: «Sum sed quid sum» («Io sono ma cosa sono?»).

Come poter rispondere a tali quesiti esistenziali, che racchiudono tutto il pensiero di De Chirico? D’altronde, lui stesso sostiene che «…non vi è alcuna ragione in tutto ciò; [bisogna] spogliare l’arte di tutto quello che potrebbe ancora contenere di routine, di regola, di tendenza a un soggetto, a una sintesi estetica» [2].


Autoritratto, 1911 Il Pensatore, 1973


I dipinti metafisici trascendono la realtà. Sono la cesura tra la rappresentazione del vero e la semiosi che riduce l’uomo ad effige marmorea e piega la prospettiva a soluzioni spaziali illogiche: tutto diventa un segno privo di significato; si ottiene una nuova dimensione, un rinnovato linguaggio espressivo di cui l’enigma è un’immagine che nasconde ed eleva l’artista alla figura del vaticinatore, un profeta rivelatore di un mondo ignoto.

L’opera simbolo di questa rinascita oracolare mostra una piazza illuminata da un sole «tiepido e senza amore» [3] di un pomeriggio d’autunno, al cui centro si trovano un’imponente statua e due piccole figure avvolte da un anticheggiante peplo; sullo sfondo compare un tempietto e una schiera di modeste case, spietatamente disabitate.

La rappresentazione, come l’artista suggerisce in alcuni suoi scritti, è Piazza Santa Croce a Firenze, legata ad una particolare condizione di convalescenza che lo poneva in uno «stato di sensibilità malata». Tuttavia, a lasciare attonito lo spettatore non è la pertinenza mimetica di ciò che egli raffigura, bensì la capacità di ricostruire poeticamente uno spazio concreto e di trasfigurarne le sembianze, esaltando la folgorazione lirica e filosofica.

Una nuova brezza ottobrina inonda l’anima del genio e un nuovo canto la seduce: Zarathustra è arrivato, il grande cantore è giunto, «colui che parla dell’eterno ritorno, il cui canto ha il suono dell’eternità» [4].


L’enigma di un pomeriggio d’autunno, 1910

[1] A. Soffici, Italiani all’estero, in Lacerba, II, 13, 1914, p.207. [2] Méditations d’un peintre. Que pourrait être la peinture de l’avenir, trad.it. dall’autore, in Mecc., p. 31. Ora in Scritti/1, p. 649. [3] Mecc., pp. 31.32, 1912-1913. Ora in Scritti/1, p. 650. [4] Lettera datata da PICOZZA al 26 dicembre 1910, indirizzata all’amico Fritz Gartz.

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