di Francesco Salvatore //
Non servono sempre il Louvre di Parigi o un libro su Cleopatra per immergersi nella storia, anche senza scomodare la considerazione scontata per cui essa «è tutt’intorno a noi». Una soffitta può essere emozionante tanto quanto gli Uffizi, specie se i tesori che custodisce si arricchiscono di un valore affettivo e di una certa familiarità. Nelle case di nonni e zii, la maggior parte di noi ha modo di scoprire le radici profonde della propria storia personale e immergersi in un tipo di cultura differente, raramente presente nei manuali, silenziosa eppure comunicativa come poche. Il mondo popolare e contadino del Novecento sopravvive attraverso strumenti che ci restituiscono uno spaccato di realtà pulsante, commovente, verace.
Immaginiamo una piccola rimessa, al piano terra di una casa di campagna in un piccolo paese dell’Abruzzo, eletto a punto di raccolta di qualunque oggetto che sia passato per le mani della famiglia che vi abita. Avremo un’enciclopedia della vita quotidiana, capace di intessere storie pazzesche con strumenti comunissimi, luoghi magari poco memorabili, protagonisti ordinari. La rozza culla di legno, con la sua guardiola a cui appendere le tendine per tenere lontani gli insetti, ci parlerà di un’infanzia molto diversa. Accanto alla celebre e comune fionda (la frezzë) troveremo giocattoli più strani: un elastico, un bastoncino di legno e un rocchetto da filato si trasformano in un semplicissimo carrarmato (lu carrarmatinë), da caricare e far camminare il più possibile sfidandosi con gli amici davanti casa; oppure bastano il cerchione di una bici (lu cerchië) e un lungo bastone (la ciappettë, di legno o di ferro) per occupare un intero pomeriggio, guidando la ruota in giro per il paese. Una canna cava con un bastoncino curvato e messo in tensione costituisce invece lu fucilettë; sarebbe un fucile giocattolo, ma se costruito a dovere un suo proiettile ligneo può lasciare un bel marchio sulla porta della nostra rimessa. Addirittura, per giocare a stregn’a’murë sono sufficienti dei sassolini (le ‘vreccettë): ci vuole parecchia abilità per lanciarne uno con il solo pollice, facendolo rimbalzare sulla parete nel tentativo di farlo cadere il più possibile vicino al muro.
Uno dei misteri più affascinanti che potremo incontrare nel nostro spazio immaginario riguarda la coltivazione e lavorazione del lino, testimoniate dai molti strumenti necessari a trasformare i piccolissimi semi in una camicia o in dei pantaloni. Il tessuto non si compra all’emporio: con un lungo processo, le piante sono prima lasciate seccare e poi vengono estirpate (shtreppatë), legate in mannellë (fascine del diametro di un polso), messe a macerare (“a curare”, in gergo) nel fiume per quindici giorni e, dopo l’asciugatura e la pulitura di radici e semi (la shteppë o shtoppë), pestate con una serie di strumenti (lu majocchë e la manginelë, che assomigliano a ghigliottine ma sono di legno, e la rascë, una sorta di tavola chiodata) per far uscire la fibra lanuginosa che verrà tessuta. Questa si raccoglie nella chenocchië, una sorta di bastone che si fa ruotare vorticosamente per estrarre il filo, agganciando il fuso ai batuffoli di lino. Parte del filato diventa il protagonista di una filastrocca che un tempo tutti conoscevano: «girë girë lu ‘ndruvelarellë, la matassë fa la rutellë». La ruota dotata di manico dello ‘ndruvelarellë, infatti, trasforma la matassa in piccole rotelline di filo, da inserire nella navetta (o spoletta). Altre matasse invece comporranno l’intricatissimo sistema del telaio, la cui trama dev’essere ordita secondo una tecnica estremamente complicata e padroneggiata ormai da pochissimi, ad oggi.
Solo adesso comparirà davvero al centro del nostro spazio immaginario sua maestà il telaio. Se sapessimo usarlo, alterneremmo i nostri piedi ai pedali, invertendo di volta in volta i due livelli della trama verticale che vanno su e giù (li liccë) mentre la spoletta viaggia veloce, intrecciando il filo orizzontale. Il suo rumore è ipnotico; i gesti sono sempre gli stessi, ma richiedono grande attenzione. La fatica sarà ricompensata da metri e metri di tessuto di ottima qualità, che le mani sapienti dei sarti taglieranno e cuciranno. Mestiere duro, quello del sarto nel Novecento, come testimonia il ferro da stiro in ghisa poco più in là: pesa un’enormità e dev’essere riempito di carboni ardenti.
A guardarci meglio intorno, gli attrezzi della tessitura costituiscono solo una frazione del patrimonio conservato qui dentro. Non basterebbero pagine e pagine per parlarne, ma ormai è il tramonto e dobbiamo uscire da questo luogo immaginario.
P.s.: un luogo, anzi, una rimessa come quella dell’articolo esiste. È il piccolo museo privato “Le cose de ‘na vote” (“Le cose di un tempo”) di Camillo Assetta, a Vacri (CH), frutto di quasi venticinque anni di ricerche e meticoloso lavoro per replicare a mano alcuni degli oggetti.
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