di Alice Di Giovanni, Francesco Salvatore, Marika Tanzi // Nel corso di ottobre la cultura si è legittimamente ritagliata uno spazio considerevole sui giornali e nei media grazie all’annuncio dei Premi Nobel 2020. Dodici in totale per sei ambiti diversi: sette uomini, quattro donne e un’organizzazione (il Programma Alimentare Mondiale o World Food Programme dell’ONU, che si è aggiudicato il Nobel per la Pace). Si eguaglia così il numero di vincitrici del 2018 (in quel caso su tredici premi totali), superando le tre donne del 2011 (tutte per il Nobel per la Pace) ma senza battere il record del 2009, che vide cinque donne premiate in quattro campi differenti. In queste occasioni, i Premi Nobel assegnati a donne sfiorano o superano la quota del 30%, abbassata sul lungo termine da annate prive di vincitrici (2017, 2016, 2012, 2010, 2006, 2005, 2002-1998 solo negli ultimi venticinque anni).
Il nostro sguardo su questi dati meramente numerici può farsi più completo se messo a paragone con altre statistiche. Secondo l’Eurostat (2018), in Europa le scienziate (senza distinguere i singoli ambiti) sono in media il 41% del totale, con Italia e Germania attestate rispettivamente sul 34 e 33%, mentre altri paesi sono al di sopra il 50% (Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania). Allargando il nostro punto di vista con ricerche leggermente più datate (2013), l’UNESCO Institute for Statistics riporta una percentuale mondiale di scienziate del 29,3%, con numeri più bassi nel cosiddetto ambito STEM (Science, Technology, Engineereing, Mathematics). Una serie di indagini, analisi e interviste condotte proprio dall’UNESCO restituisce una realtà piuttosto chiara: le donne non sono incentivate a perseguire le proprie passioni in ambito scientifico (o STEM) e, qualora lo facciano, incontrano maggiori difficoltà (tanto oggettive quanto psicologiche).
Per questo motivo nasce il progetto SAGA (STEM and Gender Advancement), che insieme ad altre iniziative è atto a promuovere sin dall’età infantile l’eventuale interesse per queste branche del sapere. In sostanza, quindi, il tasso di vincitrici del Nobel (delle annate migliori) non fa che rispecchiare l’attuale composizione del mondo scientifico, che risente ancora di una mentalità riluttante nel sostenere l’amore per la scienza in bambine e ragazze. A rimediare potrebbe essere l’esempio di scienziate, autrici, professoresse, donne che hanno intrapreso la carriera che sognavano nell’ambito STEM e hanno abbattuto le barriere di un mondo non sempre disposto ad accoglierle.
È quanto si augura la scienziata Andrea Mia Ghez: «Spero di poter ispirare altre giovani donne ad entrare in questo campo […] così pieno di soddisfazioni; se si è appassionati alla scienza, c’è così tanto che si può fare!» Ghez aveva compiuto da poco quattro anni quando la missione spaziale Apollo 11 portò i primi uomini sulla Luna: l’impatto che le immagini provenienti dallo spazio ebbero su quella bambina newyorkese fu tale da farla innamorare dell’universo e, nel tempo, della scienza. Circa cinquant’anni dopo, Ghez ha ricevuto con il tedesco Reinhard Genzel e con il britannico Roger Penrose il Nobel per la Fisica 2020, assegnato «per le loro scoperte su uno dei fenomeni più “esotici” dell’universo, i buchi neri». In particolare, la squadra di scienziati guidata da Ghez (lavorando in parallelo con il team di Genzel) ha dimostrato quasi senza alcun dubbio l’esistenza di un buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, la nostra galassia.
Il suo nome è Sagittarius A* e si trova proprio nel Centro Galattico, un’area per noi misteriosa fino a poco tempo fa a causa delle nubi di polvere cosmica che ne ingombrano la visibilità. Con l’aiuto dei più potenti telescopi del nostro pianeta (in particolare l’Osservatorio Keck alle Hawaii) Ghez e colleghi ne hanno ricavato immagini agli infrarossi, correggendone le alterazioni dovute alla distanza tramite tecnologie di ottica adattiva. Seguendo le orbite ellittiche di due stelle (S2 e S0-102) che vi ruotano attorno, hanno potuto stimare la massa del buco nero in circa 4,1 milioni di masse solari, concentrate in un diametro di pochi milioni di chilometri (44, per l’esattezza: se si trovasse al centro del Sistema Solare, non arriverebbe a toccare Mercurio).
Il Nobel per la Chimica 2020 è stato invece assegnato ad Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna, per la scoperta di funzioni più accurate dell’editing genetico rappresentato dal sistema CRISPR/Cas. Charpentier è una biologa, microbiologa e genetista francese; trasferendosi in Svezia nel 2009 conobbe la collega Doudna, professoressa di Chimica Molecolare. Questo incontro fu di particolare importanza per entrambe: nel 2012 le due ricercatrici collaborarono con i propri gruppi di ricerca ad un progetto che ha ottenuto risultati fenomenali.
Come spesso accade nel mondo della scienza, la loro scoperta fu un’epifania apparsa mentre cercavano altro: stavano investigando sul sistema immunitario del batterio Streptococcus pyogenes, allo scopo di ottenere un nuovo antibiotico. Invece, hanno capito come reingegnerizzare l’enzima Cas9 (endonucleasi), ottenendo una funzione molecolare che può cambiare il codice genetico, se usata correttamente. Se volete sapere di più sul sistema CRISPR/Cas, detto anche “forbice molecolare”, potete leggere l’articolo scritto dalla nostra Alice Di Giovanni poco prima dell’annuncio del Nobel.
Questi tre Nobel arrivano nei due campi, la Fisica e la Chimica, con il minor numero di vincitrici (rispettivamente quattro e sette) dalla nascita del Premio nel 1901. Di ciò è consapevole Charpentier: «Il mio desiderio è che questo risulti un messaggio positivo soprattutto per le giovani ragazze che vorrebbero intraprendere il sentiero della scienza e mostrare loro che le donne nel mondo della scienza possono essere premiate. E, soprattutto, che le donne nella scienza possono avere un impatto [sul mondo scientifico] grazie alle loro ricerche».
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