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Belluno: la “grande fuga” e il ritorno alla poesia di Patrizia Valduga

Aggiornamento: 16 mag 2021

di Amedeo Bova //


Belluno di Patrizia Valduga (Einaudi, 2019) è il libro del ritorno della poetessa allo stato della scrittura, al punto di sella tra sobrietà ed ebbrezza (per dirlo con una formula a lei cara) che la porta all’ispirazione. In quanto ritorno alla poesia, Belluno non vuole rivolgersi a dei nuovi lettori, ma, con nostalgica celebrazione del passato, giunge a restituire la voce irruente della scrittrice a chi l’ha attesa durante gli anni di silenzio letterario. Sulla carta, la precedente opera di inediti di Valduga, Libro delle laudi, risale al 2012, ma il momento in cui si spezzò il suo canto va, di fatto, retrodatato al 2004, l’anno della morte del suo amato, il poeta Giovanni Raboni, e della composizione delle strazianti poesie di commiato con cui Valduga firmò la Postfazione agli Ultimi versi di Raboni e che, in seguito, ripropose in apertura del sopracitato Libro delle laudi.

Patrizia Valduga con Giovanni Raboni nel 1994 (© Marcellino Radogna)

L’amore che unì questi due grandi poeti li portò a dedicarsi reciprocamente svariati componimenti e a creare, quindi, un’intrecciata corrispondenza in versi. Nel Libro delle laudi, ad esempio, palpita l’estremo ricordo delle Canzonette mortali di Raboni, composte, a loro volta, per Valduga. Sottesa a questo dolce gioco letterario, vi fu da sempre la Sinfonia n. 45 in Fa diesis minore di Haydn, nota anche come “Sinfonia degli addii”, una melodia che si fece simbolo e leitmotiv dell’amore tra Valduga e Raboni ed ebbe la stessa risonanza della Sonata in re minore che accompagnò l’innamoramento tra Odette e Swann nella Recherche di Proust.


Il linguaggio musicale è stato, quindi, al centro del dialogo d’amore tra i due poeti e continua ad essere rilevante anche nel canto per voce sola che è l’attuale produzione di Valduga. È l’autrice stessa, infatti, a definire l’ultima raccolta, Belluno, come “andantino e grande fuga”.


A distanza di anni, Valduga riparte a fare poesia da Belluno, che è la città in cui trascorre, sola, le vacanze: un luogo e un tempo - quello della stagione estiva - in cui la poetessa si ferma a ripercorrere il proprio passato, circondata da voci fastidiose, giudizi e pettegolezzi pronunciati da una folla imprecisata di critici e conoscenti («- Cretina: / tu non capisci niente di poesia. / - Tu sei nevrotica. - Tu sei psicotica», vv. 78-80). Belluno rappresenta, quindi, un momento di sospensione in cui riflettere, venire a patti col passato e trovare le energie per fare ritorno alla scrittura e al ricordo di Giovanni Raboni.


(Foto di Francesca Maria Colombo, progetto grafico della copertina di Fabrizio Farina).

Dal punto di vista della metrica, che è il cuore della poesia di Valduga, Belluno è un poemetto, dunque un testo dalla forte matrice narrativa: non a caso, in questi versi l’autrice racconta i primi quindici anni di assenza di Raboni e lo fa trasponendo il senso di nostalgia anche nell’architettura formale dell’opera. In essa, infatti, traspare il ricordo di altre raccolte dell’autrice, ovvero le due centurie di Quartine, dal momento che le strofe di Belluno sono cento e sono quasi tutte di quattro versi (solo una, ai vv. 389-393, non lo è, ma del resto si tratta di una citazione diretta da Raboni, quindi volutamente distinta e messa in risalto). Le finte quartine di Belluno vengono però smascherate dalla stessa Valduga, in un’esplicita interruzione metaletteraria, e dal fatto che non siano composte unicamente da endecasillabi ma anche da settenari («Sì che lo so che non sono quartine: / io mi concedo qualche libertà, / io mi edifico sulle mie rovine», vv. 178-180).


(Patrizia Valduga fotografata da Riccardo Garofalo).

Ciò che più colpisce di Belluno è, però, il suo tono drammaticamente scherzoso, il suo alternare versi che rivelano la solitudine della poetessa («Più nessuno su cui poter contare», v. 1; «io sono sola anche in compagnia...», v. 23) e che descrivono la sua condizione di immobilità dopo la morte dell’amato («è in questi anni del dopo-Giovanni / che ho imparato a gridare senza suono», vv. 35-36) ad altri relativi, invece, alla toponimia bellunese («Serva, Roànza, Gusèla, Perón», v. 29) e alla politica italiana («cosa pensano quelli del PD? / Me lo domando, sì, e mi rispondo / che non può andare peggio di così», vv. 206-208). In questo modo si crea, quindi, uno stridente contrasto che colloca il poemetto a metà tra la litania e la filastrocca. Questo grottesco vortice di voci che è Belluno viene per giunta rafforzato dal ritmo cadenzato della struttura rimica delle strofe, un continuo ribattuto di rime alternate, baciate e identiche, interrotto da qualche sporadica variazione in rime irrelate o sdrucciole.


Patrizia Valduga fotografata da Dino Ignani.

Nonostante il suono scanzonato, Belluno si rivela essere, però, poesia d’occasione e di celebrazione della figura di Raboni: nel finale della “grande fuga”, la poetessa, dopo aver ritrovato la propria voce, dice addio ai monti bellunesi e torna a Milano, dove, impavida, fa richiesta al Sindaco Sala e al Presidente della Repubblica di rendere il Lazzaretto milanese un Centro culturale intitolato a Raboni («Raboni è fra i più grandi in ogni aspetto: / è un patrimonio dell’umanità. / Intitolategli il suo Lazzaretto / in nome di giustizia e verità!», vv. 381-184).

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