di Marika Tanzi //
Nell’epoca dell’esposizione mediatica a ciclo continuo e del narcisismo virtuale, parlare di autoritratto appare ridondante e retorico; ma se ci voltiamo per un attimo, con lo sguardo puntato ai secoli scorsi, comprendiamo come esso abbia rappresentato per i fotografi otto-novecenteschi il modus operandi d’eccezione per veicolare messaggi innovativi.
Facciamo un salto indietro e andiamo al 1839, anno in cui François Arago – allora deputato francese – fa un annuncio che cambierà per sempre il modo di intendere la realtà, vale a dire la scoperta del primo procedimento fotografico a opera di Louis Daguerre. C’è qualcun altro però che ne rivendica la proprietà: un certo Hippolyte Bayard, inventore della stampa positiva diretta, che – amareggiato e deluso per esser stato messo da parte dal governo francese – realizza nel 1840 il primo autoritratto della storia, Autoritratto in posa da annegato, con una didascalia che recita: « Il corpo dell’uomo che vedete nell’immagine sull’altro lato è quello del signor Bayard, inventore del procedimento di cui avete appena visto, o state per vedere, il glorioso risultato. […] L’Accademia, il Re, e tutti quelli che hanno visto questa immagine sono rimasti molto colpiti, proprio come voi, sebbene (l’artista) consideri l’immagine insoddisfacente. Gli è valsa infatti grandi onori, ma neanche un centesimo. Il governo, che tanto ha elargito al signor Daguerre, si è detto impossibilitato a fare qualcosa per il signor Bayard. Come risultato lo sfortunato uomo si è annegato […] ».
Un modo sicuramente curioso di immortalarsi, simbolo di una volontà alternativa di auto-rappresentazione.
Lo stesso desiderio di distinguersi ha sicuramente attraversato l’intera produzione della scrittrice e fotografa Lucy Schwob, che nei suoi scatti rivendica una nuova e più fluida identità di genere; proprio questo la porterà nel secondo decennio del Novecento a cambiare il suo nome in un più neutrale Claude Cahun e a radersi completamente il capo. Per tutta la vita Claude si mette alla ricerca della propria individualità, sulla quale non pone confini e che certamente mal si lega a concetti precostituiti. Nei suoi autoritratti la fotografa ci (e si) osserva nei suoi panni androgini, a volte sfidandoci, altre volte assorta nelle sue deduzioni, come quando dichiara «Under this mask, another mask. I will never be finished removing all these faces».
Ed è sul concetto di maschera – o meglio di alter ego – che il dadaista Marcel Duchamp, noto per la sua Fontana del 1917, crea nel 1921 il personaggio fittizio di Rrose Sélavy, un gioco di parole che trova il suo significato nella pronuncia francese “L’eros c’est la vie”. Con questo stravagante ready-made, Duchamp ci regala un autoritratto ingannevole, una falsa testimonianza di un’esistenza ricreata a tavolino, tesa a sdoganare tutte le pretese di artisticità e tecnicismo del tempo, a favore di una identità concettuale sfacciatamente esibita in tutti i suoi lavori.
Una ricerca concettuale che troverà pieno sviluppo nell’ondata travolgente della Body Art negli anni Settanta, dove la fotografia si ritrova a svolgere un ruolo di prim’ordine nell’attestare e nel concretizzare l’esercizio di un’azione, di un intervento sulla propria pelle; nel caso della francese Gina Pane, ciò si risolve nella vivida testimonianza di un rituale autolesionistico, dove il dolore funge da presa di coscienza di un corpo per troppo tempo anestetizzato.
Un corpo, dunque, al centro della rappresentazione autoriale, che in alcuni casi, come in quello di Robert Mapplethorpe, si fa portavoce di una morte imminente – tragicamente annunciata dall’avanzare della malattia dell’AIDS – che l’uomo affronta a testa alta in un fortissimo autoritratto antecedente di qualche mese l’impietoso epilogo (avvenuto nel 1989). Qui il volto scavato di Mapplethorpe emerge da uno sfondo scuro, mentre la sua mano destra, l’unico elemento ben visibile della foto, si chiude attorno ad un bastone con il pomello a forma di teschio.
In altri casi, invece, il corpo fa da cornice ad una riflessione critica, come esplicitato nell’opera di Shirin Neshat – iraniana di origine – che nella sua serie Women of Allah del
1997 porta alla luce ambiguità e contraddizioni di una condizione femminile ostica dopo la rivoluzione islamica che ha sconvolto il suo Paese quasi due decenni prima. Si pone davanti all’obiettivo imbracciando le armi e riportando sul suo viso – uno dei pochi dettagli non coperti dallo chador – versi d’amore di poetesse iraniane.
Una immagine dissonante che ancora una volta dimostra come l’autoritratto, in tutte le sue forme, è foriero di significati più profondi di quelli che tendiamo molto spesso, erroneamente, ad attribuirgli.
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