Di Mattia Crispino//
Se vuoi lanciare un messaggio, fai un gesto piuttosto che un discorso. Un gesto è facilmente replicabile da tutti e acquisisce un'importanza tanto maggiore quanto più è semplice e viene diffuso.
Qual è il gesto che abbiamo visto compiere più di frequente in quest’ultimo periodo?
Domanda quasi retorica: l’inginocchiarsi in segno di protesta contro l’assassinio di George Floyd per mano di Derek Chauvin, agente della polizia di Minneapolis. 8 minuti e 46 secondi in ginocchio sul collo di George, il tempo per fargli esclamare «I can’t breathe» e togliergli il respiro per sempre.
Tuttavia, non risiede in questo particolare episodio la genesi del gesto che sta accompagnando le proteste contro la police brutality e il razzismo, toccando ogni punto degli USA e del mondo intero.
Colin Kaepernick. Un nome che ai più non dirà quasi nulla, soprattutto a chi non ha dimestichezza con l’universo NFL, la massima serie americana di football.
Colin ha 32 anni ed è un buon quarterback, ruolo chiave della squadra. Ha giocato nei Philadelphia 49ers dal 2011 al 2016, ma da allora non ha trovato più nessuna squadra disposta ad ingaggiarlo. Perché?
Il numero 7 dei 49ers è diventato uno degli alfieri della lotta alla discriminazione nei confronti della comunità afroamericana, una piaga che affligge gli Stati Uniti da sempre, che ha sempre saputo cambiare forma e che è sempre rimasta inalterata nella sostanza.
E lo è diventato scegliendo un momento iconico del dirompente patriottismo che contraddistingue la cultura americana.
Il 26 agosto 2016, prima di un’amichevole di pre-season, risuona l’inno nazionale nello stadio. Tutti sono in piedi con la mano sul cuore ad onorare The Star Spangled-Banner. Tutti tranne “Kap”, che viene ripreso da una reporter locale seduto in panchina. Appena 24 ore dopo, l’attenzione mediatica scatenata dall’episodio induce il legale del giocatore a rilasciare la seguente dichiarazione:
«Non starò in piedi a mostrare orgoglio ad una bandiera e ad un Paese che opprime i neri e le persone di colore. Per me questa faccenda è più grande del football».
Una settimana dopo, a San Diego, Kaepernick si inginocchia durante l’inno nazionale assieme al compagno di squadra Eric Reid. Il gesto diventa abituale e segna una spaccatura nella vita, professionale e sociale, del giocatore. Da allora, infatti, le 32 franchigie della NFL si rifiutano, in maniera silenziosa e sistematica, di offrire un contratto a “Kap”.
La ragione di tale scelta appare piuttosto lampante: quello del football americano è un ambiente permeato da un clima di esaltato patriottismo e da una mentalità conservatrice, più che in ogni altro sport.
Nonostante le parole del commissioner della lega Roger Goodell lascino trasparire un generale appoggio alle iniziative dei giocatori che vogliono cambiare la società in cui vivono, i fatti nello specifico caso dimostrano tutt’altro.
Kaepernick non riesce a trovare una squadra disposta ad offrirgli un contratto, nonostante la maggior parte di esse abbia espresso il proprio dissenso nei confronti delle dichiarazioni di Trump.
Mentre “Kap” rimane ai margini della NFL, la sua protesta si diffonde a macchia d’olio coinvolgendo moltissimi giocatori della lega e, come fiume in piena, esonda dagli argini del football sfociando anche nel basket (NBA) e nel baseball (MLB). Nonostante questo, la carriera di Colin procede in direzione opposta. Per tre anni si allena da solo, in attesa di una possibilità che sembra lontana quanto i Tartari provenienti dal deserto nel romanzo di Buzzati. Non si hanno ancora notizie sul suo futuro: ad oggi non ha avuto una vera possibilità di fare il suo lavoro.
Ciò che comunque rimane di Kaepernick è quell’atto di inginocchiarsi silenziosamente in segno di protesta, senza venir meno al rispetto di uno dei valori fondanti della cultura a stelle e strisce, quale è il rispetto per la bandiera.
Un gesto che si nutre del suo ripetersi tra gli atleti, i poliziotti e i manifestanti che stanno protestando in queste settimane per rivendicare il diritto dei neri di essere trattati come i bianchi, in un Paese che vive sospeso tra il futuro verso cui costantemente si proietta e un passato cui rimane fermamente ancorato.
Se vuoi lanciare un messaggio, fai un gesto piuttosto che un discorso.
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