di Marika Tanzi //
Sin dalla sua nascita, la fotografia ha portato con sé delle grandi rivoluzioni, tracciando nuovi perimetri per molte discipline che nel corso dei secoli si sono sviluppate con il solo ausilio del disegno. Una tra queste è la fisiognomica, che proprio nell’Ottocento stava trovando campo fertile in nuove aree di applicazione come la psicologia, l’antropologia e la psicoanalisi; la sua funzione era quella di trovare una correlazione tra i lineamenti del volto e i tratti psicologico-caratteriali di un individuo.
Partendo da tali presupposti appare chiaro come la fotografia, nella sua ontologica fedeltà al vero, sia divenuta lo strumento più efficace per lo studio di una realtà molto distante dalla nostra: quella manicomiale. Analizzare i “diversi”, coloro posti al di fuori della restrittiva normalità borghese, diventa il focus su cui porre l’attenzione; così, a partire dal 1851, vengono installati i primi laboratori fotografici all’interno delle residenze manicomiali, tra i quali spicca quello creato presso l’ospedale della Salpêtrière a Parigi da Jean Martin Charcot, un noto neurologo che vanta Sigmund Freud tra i suoi studenti. L’attività lo porterà in seguito a pubblicare l’Iconographie Photographique de la Salpêtrière a fine Ottocento, definito dallo stesso Freud «un piccolo atlante illustrato sull’inconscio».
In Italia la pratica prende piede quasi simultaneamente nei vari istituti manicomiali di Reggio Emilia (dove il direttore Augusto Tamburini nel 1878 introduce il ritratto fotografico per analizzare gli internati) e Venezia, che nel suo istituto femminile ospiterà Ida Irene Dalser, dapprima moglie di Mussolini. Qui la schedatura dei pazienti è funzionale sia alla classificazione che alla registrazione dell’andamento della malattia. Lo schema fotografico di base prevede uno sfondo neutro su cui far risaltare il volto asettico e inespressivo del malato, lì dove a contare è l’aspetto scientifico della catalogazione, asportando dai pazienti ogni traccia di dignità umana.
È solo alla fine degli anni Sessanta che la realtà devastante dei manicomi viene portata alla luce grazie al contributo di diversi fotografi italiani, che per la prima volta intendono documentare non solo una malattia, ma la persona dietro di essa, spesso preda di barbarie e di un’alienazione forzata dalle terapie farmacologiche e dalla violenza subita.
È il caso di Luciano D’Alessandro che esplora attraverso un occhio più umano la condizione della malattia nel suo volume Gli Esclusi, pubblicato nel 1969 dopo tre anni passati nel Manicomio Materdomini di Nocera Superiore. Una denuncia sociale che lo psichiatra Sergio Piro, nella prefazione al suo lavoro, descrive in questo modo: «Il vuoto totale in cui si trascina l'esistenza dei malati non è il vuoto della malattia come ineluttabile condanna biologica, è invece il vuoto che l'apatia, l'inerzia e l'abbandono ha creato in coloro che sono esclusi da qualunque movimento e da qualunque dinamica. Se già lo spazio dell'uomo era ristretto dalla sua alienità, esso viene ulteriormente ristretto dalla violenza e dall'abbandono».
Nel medesimo anno i due fotografi Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati pubblicano Morire di classe con l’aiuto dello psichiatra Franco Basaglia, ispiratore della legge Basaglia del 1978 che pone di fatto fine alle istituzioni manicomiali. Nell’opera l’isolamento e l’esclusione dei ricoverati si riflette nei loro sguardi spaesati. È invece del 1982 il documentario San Clemente di Raymond Depardon, fotoreporter e regista francese vincitore del premio Pulitzer nel 1977, il quale pubblica in seguito il libro Manicomio, che insieme alle opere dei suoi predecessori apre uno squarcio nella visione offuscata della popolazione italiana del tempo.
Da allora di passi ne sono stati fatti tanti; la malattia è diventata parte accettabile e non più nascosta di una categoria umana fragile, come avviene nella serie UCP UMCG (2015) di Laura Hospes, fotografa dei Paesi Bassi che viene ricoverata in una clinica psichiatrica dopo aver tentato di togliersi la vita in seguito ad una grave depressione. Qui ha modo di esternare i suoi dissidi interiori attraverso gli autoritratti, che generosamente porge allo spettatore per invitarlo ad entrare nella stanza ormai aperta della follia umana, a riprova del fatto che il nostro sguardo è finalmente pronto a varcarne la soglia.
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