di Marika Tanzi //
La comprensione di fenomeni a noi poco chiari, spesso sottoesposti in una luce troppo scura, ci trascina in una condizione di incertezza e delusione; azioni, accadimenti, epifanie: sono gli scenari imperfetti della vita. Nasciamo, crediamo in qualcosa e poi scompariamo in un turbinio inconsistente. L’essenzialità di questo ciclo non deve però far dimenticare che esistono numerosi intervalli che lo compongono, come una salsa agrodolce da interporre fra i due strati del nostro panino preferito: si superano dolori, dispotismi emotivi, macchinazioni nefaste della nostra mente, al fine di assaggiare quel lieve retrogusto di felicità.
“Everything will be ok” ci sussurra l’autore spagnolo Alberto Lizalarde mentre espone il suo progetto fotografico dal titolo omonimo, frutto di una riflessione intimista sulla transitorietà degli stadi della vita. Un viaggio che affrontiamo ogni qualvolta ci troviamo a navigare nello spettro di sensazioni che ci avvolgono, tra un nuovo, serpeggiante dolore e la guarigione. I suoi scatti partono proprio dal “collasso emotivo” che segue la caduta, rappresentato nella prima immagine dai rivoli di luce dei fuochi d’artificio che si disperdono nell’aria: soli, ben distanziati, ognuno raccolto nel proprio dolore.
A seguire, la drammaticità di una macchia di sangria sul pavimento che ricorda una pozza di sangue, indice di uno squarcio violento.
Si susseguono immagini profonde, strazianti, concatenate in una classica struttura da libro, con la rappresentazione di tre capitoli (presentazione, sviluppo ed epilogo). È così che ci passano davanti agli occhi scene di uomini e donne assorti, in lacrime, che si cercano in un gesto di solidarietà fraterna; ai tumulti, ai segni rossastri sulla pelle e ai punti di sutura si accompagnano immagini del cielo e della terra primordiale, le cui radici vengono sradicate dal terreno.
Dopo l’immenso viaggio approdiamo finalmente nel territorio rassicurante dell’accettazione, che intravediamo inizialmente da lontano, timidamente, un po’ carnefici e un po’ vittime di noi stessi. Ci basta una luce tremolante, un rumore più tenue, per comprendere come il peggio sia passato, lontano appena qualche passo ma finalmente soggiogato. Una donna che porge la mano verso un punto indefinito sopra di sé innesca una girandola di luci artificiali, che ruotano vorticosamente nel buio: è l’inizio dell’epilogo. L’ultimo atto si accende di colori, in un mare – forse purificatorio – dentro cui si rincorrono sorrisi, bagliori e, ancora una volta, fuochi d’artificio. Stavolta, però, non c’è più da averne timore, a riprova del fatto che dallo scoppiettio irregolare delle nostre emozioni si possa ricavare l’equilibrio cercato.
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