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Barre e metafore: due passi nella Storia con Rancore e Murubutu

di Francesco Salvatore // Pensiamo a una definizione della “Storia”, quella con la lettera maiuscola. La prima cosa che verrà in mente a molti è «quella materia che a scuola proprio non sopportavo». Pensiero legittimo: la Storia non può e non deve piacere a tutti. Basta poco, però, per andare oltre la superficie e incappare, quasi senza aspettarselo, nel suo fascino: mentre ascolti un po' di musica italiana in riproduzione casuale su Spotify, ad esempio. Parte Eden di Rancore, l’hai già sentita a Sanremo, forse un po' troppo distrattamente; l’ascolti tutta, con più attenzione, complice il ritmo coinvolgente e il ritornello che resta in testa. Oppure parte La notte di San Bartolomeo di Murubutu, resti sorpreso dalla voce profonda del rapper reggiano (scoprirai solo dopo che è anche un professore di Liceo) e decidi di dargli una chance. Nel giro di due strofe, ti accorgi che la Storia ti ha stanato in uno dei tuoi momenti di tranquillità, dopo che hai passato cinque anni di scuole superiori ad odiarla ed evitarla.

Vincitore del Premio “Sergio Bardotti” per il miglior testo sanremese, Rancore parte da un simbolo semplice e significativo per l’umanità, la mela, e la usa per tessere una ricchissima trama di rimandi, avanti e indietro nella Storia. È come se questo frutto si staccasse dal ramo e rotolasse giù per un pendio, accompagnando l’itinerario dell’umanità tra un sobbalzo e l’altro e divenendo metafora della scelta. Siamo nel tempo biblico quando Eva e Adamo mangiano la mela dall’Albero della Conoscenza, segnando le sorti dell’umanità: «Stacca, mordi» a cui seguono inevitabilmente «spacca, separa, / amati, copriti, carica, spara». La perfezione dell’Eden è spaccata, l’esistenza dell’uomo si separa dalla benevolenza di Dio; l’umanità scopre la passione dell’amore e la sua nudità da coprire. L’unità del Creato si è rotta, dando inizio alle guerre umane in cui ogni arma è caricata per sparare. Nulla è più «come l’Eden, come prima, quando tutto era unito».


La mela può essere ancora il simbolo di una scelta positiva per l’umanità: la via della genialità, come «quella mela che è caduta in testa ad Isaac Newton». Tuttavia, nella maggior parte dei casi, Rancore vede nel frutto la realizzazione della malvagità umana: la mela-bersaglio sulla testa del figlio di Guglielmo Tell rappresenta il destino delle nuove generazioni tenuto in scacco dai loro predecessori, i quali danno forma a un futuro che in effetti non vivranno, ma imporranno ai propri discendenti. Il pomo lanciato da Eris-Discordia porta al litigio le dee Atena, Era e Afrodite per via della scritta che reca sopra («Alla più bella»); sarà Paride a dover scegliere tra loro, eleggendo Afrodite e ottenendo in cambio l’amore di Elena, la più bella tra le mortali. Là dove mito e storia si fondono, Paride preferisce un premio immediato, ricevendo però come conseguenze indirette la caduta di Troia e, a ben riflettere, la nascita di Roma tramite la fuga del troiano Enea.

Ancora, la (Grande) Mela è New York, con le Torri Gemelle del World Trade Center abbattute in quel doloroso 11 settembre 2001; a “mangiarne” le conseguenze è la Siria-Biancaneve, uno tra i tanti paesi del Medio Oriente piagato dalla guerra. Dal mito alla contemporaneità, Rancore unisce epoche diverse all’insegna di un unico principio: la capacità di scegliere e affrontarne le conseguenze. «Se ogni scelta crea ciò che siamo, che faremo della mela attaccata al ramo?»

Dalla Storia dei millenni agli eventi di una notte sola: «a Parigi a fine agosto ormai finiva l’estate» quando le lotte religiose della Francia esplosero nella strage della notte di San Bartolomeo (1572), portandosi via le vite di migliaia di calvinisti francesi, soprannominati “ugonotti” in maniera dispregiativa. Non più il fascino dei sottili collegamenti tra eventi lontani come in Eden, ma la magia del racconto di una notte che cambiò gli equilibri politici di fine Cinquecento, riportata in vita momento per momento dall’equilibrio prodigioso delle rime di Murubutu. Da una parte i cattolici del re di Francia Carlo IX, mandante della strage, e di papa Gregorio XIII, talmente entusiasta del massacro da farlo dipingere nelle proprie stanze dal Vasari, oltre ad aver coniato monete commemorative dell’evento e fatto intonare un Te Deum in ringraziamento a Dio. Dall’altra gli ugonotti, accorsi a Parigi per il matrimonio del re calvinista Enrico III di Navarra con la cattolica Margherita di Valois, intesa politica di pacificazione divenuta esca per una strage religiosa.


Nel mezzo, scene di folla e di violenza magistralmente rese da Murubutu, mentre «il cuore di Parigi batte in fretta ed osserva l'esercito e la feccia che ora insorge e saccheggia». Difficile dimenticare ciò che accadde quella notte, se il padre del “letteraturap” ci prende per mano e ci accompagna dentro gli eventi, oltre la superficie di una piatta pagina di manuale, tra i destini di ugonotti inconsapevoli e cattolici spietati pronti ad assassinarli nei loro letti. Alla fine de La notte di San Bartolomeo non può che riecheggiare un solo grido: «Une foi, une loi, un roi». «Una fede, una legge, un re»: l’assolutismo religioso e politico ha vinto, quantomeno nei quattro minuti e trentaquattro secondi di questo pezzo.


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