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Cesare Pavese: il cagionevole destino di uno scrittore provinciale

di Giorgia Vecchiotti //


Cesare Pavese, uno dei maggiori intellettuali del XX secolo, nacque il 9 settembre del 1908 a Santo Stefano Belbo, piccolo paesino delle Langhe piemontesi. Nonostante l’agiatezza economica della famiglia, lo scrittore e poeta conobbe la sofferenza fin dall’infanzia, in particolare con la morte del padre, venuto a mancare quando lui aveva 5 anni. L’infanzia fu per lui un’età di scoperte e traumi e sarebbe diventata uno dei temi dominanti nelle sue opere. Già durante l’adolescenza dimostrò di avere interessi diversi dai suoi coetanei: amava leggere, fare lunghe passeggiate e osservare la natura, ripudiando la compagnia degli altri ragazzi. Dopo il liceo, si iscrisse all’Università di Torino, alla Facoltà di Lettere; qui iniziò a maturare le sue concezioni politiche, che lo portarono a prendere parte ai movimenti antifascisti, nonostante alcune esitazioni; ciò gli sarebbe costato la condanna a tre anni di confino per antifascismo a Brancaleone Calabro. Da quel momento iniziò per lo scrittore una crisi estetica e morale che avrebbe riversato nelle pagine dello Zibaldone, successivamente chiamato Il mestiere di vivere.



Dopo essersi laureato si dedicò all’attività di traduttore dall’inglese; tra i suoi lavori quello che ebbe maggiore successo fu Moby Dick di Melville. Per Pavese il contatto con l’America fu fondamentale, poiché scoprì sé stesso: la cultura americana diventò per lui un mezzo per protestare contro il regime in atto e contro l’autarchia culturale; negli scrittori americani trovò qualcuno che come lui si opponeva alle forme estetiche e all’ideologia politica dominanti.


A segnare profondamente la sua vita fu l’amore: gli amori infelici lo condussero al triste epilogo della sua esistenza. La prima donna che lo portò a sviluppare questa amarezza mista a delusione fu Tina Pizzardo. Per dimenticarla si rifugiò nella letteratura, iniziando a collaborare con la casa editrice Einaudi pubblicando le sue prime poesie: esordisce con la raccolta Lavorare stanca del 1936. Altra delusione l’avrebbe ricevuta da Fernanda Pivano, nota traduttrice, scrittrice e insegnante di lettere, sulla quale lo stesso Pavese ebbe una notevole influenza nel momento in cui ella scoprì la letteratura americana. A lei avrebbe dedicato tre poesie (Mattino, Notturno ed Estate), nonostante il suo rifiuto alla proposta di matrimonio.



Lo scrittore diventò sempre più inquieto a causa di una vita privata insoddisfacente. Dopo la Pivano, il suo desiderio d’amore si scontrò con altre due donne: Bianca Garufi e Costance Dowling. In seguito al sentimento di amarezza lasciato dalla relazione con la Garufi, avvertì il bisogno di purezza sociale e si iscrisse al Partito Comunista Italiano nel 1945. Eppure ben presto si accorse di non essere un uomo di partito: il suo allontanamento dal PCI fu il risultato della perdita di quell’equilibrio su cui tanto insisteva, tra l’impegno civile e politico e il bisogno più intimo di coltivare liberamente la sua arte. A Roma, nel ’49, conobbe Constance Dowling, un’attrice alla quale avrebbe dedicato la celebre raccolta di liriche Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Anche questa passione si sarebbe spenta presto.



Durante la sua vita, Pavese avrebbe sempre trovato conforto nella scrittura, ma alla fine neanche questa sarebbe riuscito a salvarlo. Nonostante il suo successo, testimoniato dal Premio Strega vinto nel 1950 con La bella estate, decise di porre fine a questa esistenza infelice, a questa insoddisfazione interiore, a questo senso di inadeguatezza: si tolse la vita il 27 agosto 1950, ingerendo una dose elevata di sonnifero.

Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò lasciò scritto:

«Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».





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