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Caravaggio: tra luci e ombre

di Carla Di Renzo // Potreste immaginare un’Italia priva di Michelangelo Merisi da Caravaggio, che con la sua pittura rivoluzionò il linguaggio del reale attraverso luci e ombre? Egli fu in grado di fondere il divino empireo con la dimensione terrena, sporcando mani e piedi di uomini che lui effigierà come fossero santi, non senza lo sdegno dei benpensanti dell'epoca.


Ben quattrocentodieci anni sono passati dalla sua misteriosa morte, avvenuta il 18 luglio del 1610 in un remoto sanatorio a Porto Ercole. Caravaggio lascia a noi italiani un’eredità incommensurabile di capolavori che ci immergono tra due poli in opposizione: bene e male, verità e bugia, fede e perdizione. Pochi quadri sono unanimemente riconosciuti dalla critica come autografi e sono stati teatro di scontri di attribuzione, in cui le tele furono viste come sospette senza il sostegno dello stile, improbabili senza quello delle fonti, impossibili senza quello della scienza. Tuttavia, sono sufficienti a celebrare il pittore sotto il segno della fama.

Il suonatore di liuto (1596)

Dopo un breve apprendistato presso Simone Peterzano, pittore del manierismo Lombardo che si professava allievo di Tiziano, Michelangelo partì nel 1592 alla volta di Roma, travolto dal successo e rincorso dal facile scandalo. Fu la capitale ad inaugurare la sua carriera artistica; qui coltivò prestigiose conoscenze di uomini di potere e pittori come Lorenzo Carli, presso il quale soggiornò, lavorando nella bottega in Via della Scrofa e con il Cavalier d’Arpino, uno dei maggiori esponenti del tardo manierismo. A questo periodo risalgono opere come la Maddalena Penitente del 1593, Il ragazzo morso da un ramarro e Il suonatore di liuto del 1596. Questa fu solo una tappa del lungo percorso del Merisi, che prese avvio con le prime opere giovanili del 1597; tra di esse i canestri di frutta, i giovinetti, i musici e i primissimi temi sacri, realizzati quando l’artista era poco più che adolescente eppure già considerabili una rivelazione del suo talento.

Il ragazzo morso da un ramarro (1596)

Ben presto iniziò a dedicare il suo alacre e spasmodico “dipignere” alle grandi tele d’altare, sostenuto dal sodalizio con il Cardinal del Monte, grandissimo uomo di cultura e appassionato d’arte; ammaliato dalla sua pittura, il Cardinale comprò alcune delle opere, tra le quali il famosissimo I bari. Fu attraverso il suo ausilio che gli furono commissionate le tre grandi tele da destinare alla Cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, tra cui ricordiamo la Vocazione e il Martirio di San Matteo. Suo protettore e mecenate fu anche il ricco marchese Giustiniani, che in più di un’occasione riuscì a salvarlo da questioni legali grazie alle sue ramificate influenze.

I bari (1594)

Ogni quadro del Caravaggio presenta una storia in cui sguardi intensi di contadini, prostitute e uomini comuni catturano la luce, trasfigurazione simbolica del magma emotivo del genio. Sono i suoi contrasti d’animo a rompere le regole, inducendo la sua indole ballerina a un gesto che condurrà al dramma: l’omicidio del notaio Tommasoni, per cui l’artista fu condannato a morte e costretto alla fuga. La sua pittura subì una svolta: la fitta trama cromatica penetra nell'ombra, senza mai varcare il confine del buio; i suoi colori si fanno criptici, persistenti, enigmatici e paradossali. Michelangelo Merisi si consacra «scultore del colore e insuperabile maestro della luce».

Martirio di San Matteo (1600-1601)

La sua fuga verso Napoli, Malta e infine l’isola siciliana muta la sua tavolozza. Non troviamo più spazio per la retorica né per le linee morbide e sinuose che accennavano a teneri contrasti chiaroscurali. La tragedia si coglie nell'immanente e il gesto patetico osanna e condanna l’opera al manifesto dell’io travagliato: la terribile Giuditta e Oloferne del 1600, le due superbe versioni della Cena in Emmaus (1601 e 1606), l’intima quanto iconica Decapitazione di Golia che funge da presagio della sua imminente sorte. Il pittore si afferma anche come maestro dei sentimenti e stimola l’osservatore con una provocazione visiva, quasi senza tempo, in cui lo sguardo si posa su mani e corpi teatrali che agitano le loro membra in nome di una devozione convulsa.

Giuditta e Oloferne (1597)

Egli fu genio e sregolatezza; rese la sua arte altare dell’ossimoro e dimora del caos, come leggiamo anche in una delle sue ultime opere, la monumentale tela de L’Annunciazione, dipinta nel 1608 per la chiesa francese di Nancy. Un capolavoro che sembra voler congedare il suo pubblico con inaspettata dolcezza, quella della Vergine Maria dai tratti leonardeschi. Epifania artistica o, forse, l’ennesima provocazione voluta dal Caravaggio, che abbandona il suo canone chiaroscurale per accogliere così un ultimo afflato di vita. Una vita che ha sfidato, trasformandola in eterna lotta pittorica, ove «senza energia non c'è colore, non c'è forma, non c'è vita», come egli stesso afferma.

Annunciazione di Nancy (1609)

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