di Martina Di Febo //
Siamo portati, per natura, a nutrire simpatia o antipatia nei confronti degli altri e a lasciarci guidare dall’istinto e dalle sensazioni. Affinità e complicità sono ingredienti essenziali per i nostri legami sociali, in amicizia, in amore e nei rapporti professionali.
Tuttavia, l’essere affini e l’essere complici non si equivalgono.
L’affinità è quel senso di familiarità che ci avvicina all’altro e che ci permette di instaurare un’intesa (il cosiddetto “feeling”) senza troppi sforzi. Ci si può sentire affini a qualcuno nel modo di pensare, nei gusti o nel grado di sensibilità in generale. Pertanto, si tratta di una connessione perlopiù superficiale, stabilita attraverso uno scambio reciproco di opinioni e vedute di vita.
La complicità è invece l’espressione di un’intesa perfetta, giocata tanto in superficie quanto in profondità. Rispetto alla semplice affinità, infatti, indica un coinvolgimento maggiore, più radicato: è una forma di partecipazione attiva e consapevole che si manifesta mediante sguardi e sorrisi, gesti e parole. Tutto ciò permette anche ad occhi esterni di riconoscere la stabilità alla base del legame.
Queste naturali forme di intesa nascono dal senso di condivisione, che dipende a sua volta dai contesti sociali e di vita nei quali ci (ri)troviamo e, dunque, dal grado di confidenza che possiamo (o riusciamo ad) acquisire con l’altro.
Possiamo concludere che, se la magia dell’affinità ci fa sentire concettualmente vicini a qualcuno e vibrare alle stesse frequenze, in pratica è la complicità a dirigere l’intera orchestra all’insegna di una impeccabile sinfonia.
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