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Le lacrime del cielo leniscono le ferite delle mele rosse

di Simone Flocco //


Il sole era sul punto di annegare in un cielo rannuvolato e pensoso dove si ritagliava un piccolo arco da cui illuminava di un arancione caldo il paesaggio. Avevano entrambi lo sguardo contro il tramonto ed erano seduti su una collina leggermente scoscesa, nei pressi dell’ombra sbilenca di un albero non troppo grande. Da lì potevano osservare tutto ciò ch’era ai piedi della collina, i passanti, le macchine, i condomini con i balconi dominati dai panni stesi, le insegne luminose dei negozi e gli alberi che erano piantati simmetricamente nel mezzo dei marciapiedi. Una mela rossa forse troppo matura, che sembrava esser stata morsa e lasciata lì, a confondersi nel panorama, era al confine dell’ombra dell’albero. L’erba era fresca come lo era l’aria primaverile di fine giornata ed essi stavano a poche decine di centimetri l’uno dall’altra. Aveva dei capelli rossi come le nuvole, mossi come le onde di un mare inquieto e dello stesso odore di un’alba lattiginosa che nasce dalla caduta della luna piena e dallo svegliarsi di un innocente sole estivo. Non erano eccessivamente lunghi, le accarezzavano il collo ad ogni movimento e lo coprivano quanto bastava per lasciare libero quell’angolo più o meno retto che formava con le spalle. Aveva le braccia incrociate sulle ginocchia e non distoglieva i suoi occhi marroni da quelle nuvole cariche di sangue e rose, con un sorriso contemplativo che tradiva le suggestioni simboliche che le schiudeva quella vista.

– Perché hai gli occhiali da sole? A quest’ora non ne hai più bisogno.

– Se li togliessi si capirebbe cosa sto guardando.

– E cosa ci sarebbe di male?

– Così posso guardarti senza che tu te ne accorga. Sono almeno trenta minuti che guardo i tuoi capelli.

– Beh c’è ben altro da guardare… Il sole sta morendo e tu ti preoccupi dei miei capelli?

– Il sole mi capirebbe se ti fosse accanto.

Arrossì e girò il capo fissando lo sguardo sul suo sorriso appena accennato. Aveva un’espressione quasi materna, amorevole. Le labbra tendevano l’una verso l’altra lasciando aperta una piccola fessura che tradiva una purezza la quale precedeva il pensiero, arrivava prima di ogni considerazione logica e ogni ragionamento cosciente. Una purezza animale, inconsapevole, di quelle di cui non ci si rende conto, che si manifestano spontaneamente, prorompono in tutto il suo splendore per poi lasciare spazio alla ragione. L’espressione di quella innocenza sfuggiva incontrollata, si irradiava all’interno e poi all’esterno del suo corpo, passava dal suo sguardo, dal gesticolare delle labbra schiuse, verso ciò che stava intorno, inondava tutto, come una colata di lava cristallizzava il tempo, lo fermava, tutto ciò che la circondava usciva dalla storia per un attimo, si ergeva a mondo a sé stante, privo delle contraddizioni quotidiane e dell’incomprensibile tensione della vita. Un istante, brevissimo, in un solo istante che precede la formulazione dell’opinione sul cosa-c’è-da-fare e l’espressione di essa, ogni cosa intorno a loro si illuminò della sua genuinità, del suo candore.

– Sei sempre il solito…

Con un sorriso timido e pacato allungò le gambe e poggiò i palmi delle mani sull’erba morbida. Abbassò il capo e guardò la sua mano che accarezzava i fili verdi con delicatezza, un padre al figlio, con premura quasi avesse l’obiettivo di proteggerli dall’imminente discendere dell’acqua, per poi concentrarsi su quella tragedia quotidiana del tramonto che dinanzi a loro si consumava mediata dalle lenti nere dei suoi occhiali. Le nuvole si cambiarono improvvisamente d’abito e da rosse che erano s’incupirono abbigliandosi per la giornaliera cerimonia funebre, accompagnate dall’alzarsi d’un vento indiscreto che agitava tutto ciò che v’era nel paesaggio, come fosse il sacerdote. Cinse i suoi stinchi con le braccia.

– Sembra stiano ballando…

– Chi?

– Guarda sotto.

– Ah… gli alberi.

– Guarda come sono felici.

– Felici?

– Inconsapevoli…

– Stai esagerando, non credi?

– Vorrei avere anch’io un coreografo così, ballerei anch’io.

– Non ti ho mai visto ma nemmeno immaginato ballare, ne sei sicuro?

Increspò le labbra in una smorfia pensosa e continuò a fissare per alcuni minuti quell’agitarsi inconsapevole e gioioso invidiando chi non aveva l’oppressione delle domande che si poneva costantemente, desiderando per lui un maestro come il vento che gli insegnasse a non interrogarsi, a non spendere il meglio di sé in domande senza risposta, a danzare liberamente sulle ceneri delle riflessioni inconcludenti, gioiosamente.

– A cosa stai pensando?

Si tolse gli occhiali e si girò verso di lei. Aveva degli occhi marrone scuro come delle castagne, limpidi come una distesa uniforme di foglie omogenea priva di un qualunque errore cromatico. L’espressione crucciata che aveva appena tolti gli occhiali lasciò spazio a un alone di delicatezza e innocenza che traspariva dalle pupille grandi e dilatantesi mano a mano che si fissavano nel guardarla. Il loro sguardo si incrociò in un abbraccio ineffabile che li costrinse a rimanere in silenzio diversi minuti, incapaci di articolare alcun messaggio che fosse verbale. Quell’idillio in apparenza non comunicativo fu addobbato dall’avvento di una pioggia leggera che rendeva la danza degli alberi ancora più insensata, primitiva, pura. Continuavano a guardarsi con i capelli che iniziavano a scurirsi accarezzati dall’acqua via via più forte.

– Ti va di ballare?

Si alzò e lo salutò con affetto. Gli raccomandò di lasciarsi andare e di stare meglio, di smetterla con tutte quelle riflessioni, quelle rincorse alla ricerca di una risposta, di una guida. Gli accarezzò il viso con il dorso della mano e lo baciò su una guancia.

Ormai zuppo, rimase seduto vicino l’albero, guardandola andar via sotto la pioggia con quei capelli ormai schiacciati dal peso delle gocce che non si dondolavano più accarezzando il collo, finché la sua figura si confuse con la pioggia e tra gli altri passanti. Gli alberi continuavano la loro danza rituale, contagiosamente felici nella loro frenesia mossa dal sacerdote ventoso. La mela rossa abbandonata era lucente, pulita, e vista di lato sembrava non avere alcuna ferita. Provò una sensazione di benessere complessiva, come se fosse, finalmente, pienamente coinvolto nel gran galà dell’universo. Come se avesse trovato un coreografo che lo aiutasse, che lo guidasse, lasciando dietro tutto il resto, l’inconoscibile e lo sconosciuto, le riflessioni senza fine e le domande a cui non avrebbe mai, nessuno, in nessun luogo mai, risposto. Sorrise.


Edvard Munch, Le persone sole (1907-1908)

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